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Un nuovo film documentario sulla figura controversa di Leni Riefenstahl sta attirando l’attenzione alla Mostra del Cinema di Venezia. Prodotto da Rai Cinema e diretto dal regista Andres Veiel, “Riefenstahl” utilizza un impressionante archivio di 50.000 fotografie per mettere in dubbio i tentativi della regista tedesca di distaccarsi dal suo operato durante il regime nazista. Attraverso un’approfondita analisi, il film intende scoprire la verità su una delle figure più discusse del cinema del XX secolo.
Dopo la sconfitta della Germania nella Seconda Guerra Mondiale, Leni Riefenstahl cercò di ripristinare la sua carriera artistica sostenendo di essere stata un’artista apolitica. I suoi film, tra cui le celebri opere sulle Olimpiadi di Berlino del 1936 e il congresso del partito nazista del 1934, erano stati commissionati da Adolf Hitler e dai suoi ministri, o almeno così affermava. Riefenstahl attraverso queste dichiarazioni tentava di dissociarsi dalla sua partecipazione attiva e dai legami con il regime, dipingendosi come una vittima.
Nel documentario, Veiel rivela come Riefenstahl avesse cercato di ripulire la sua immagine nel corso degli anni, eliminando materiali scomodi dai suoi archivi. Questi archivi, sotto la gestione della Prussian Cultural Heritage Foundation di Berlino, sono stati oggetto di una ricerca dettagliata da parte del regista. I materiali ritrovati, tra cui un’intervista al quotidiano britannico Daily Express, mostrano come Riefenstahl fosse attratta dall’ideologia nazista già prima della guerra. Una dichiarazione attribuitale nel 1931 rivelava un’ammirazione quasi ossessiva nei confronti delle idee di Hitler, dimostrando il suo entusiasta coinvolgimento nel movimento nazionalsocialista.
Nel corso del film, una Riefenstahl avanti negli anni si difende strenuamente dalle numerose accuse che l’hanno seguita per tutta la vita. Viene mostrata mentre respinge con veemenza l’idea di aver utilizzato rom come comparse nei suoi film o di aver partecipato in qualsiasi modo alla persecuzione degli ebrei. Anzi, il documentario fa emergere la sua affermazione di avere distrutto un suo film sull’Olocausto, un gesto che, a detta di Veiel, dimostrerebbe il suo tentativo di nascondere il suo passato. Le interviste televisive in cui è stata incalzata dimostrano un’incrollabile determinazione a mantenere la sua onorabilità di artista.
Veiel e la produttrice Sandra Maischberger non esitano a etichettarla come manipolatrice, creatrice di fake news in un contesto di estrema complessità storica. La comparazione con figure contemporanee, come Vladimir Putin e Donald Trump, suggerisce che il suo modus operandi e l’uso dei media per costruire una falsa narrativa siano tornati d’attualità. Nonostante le accuse, Riefenstahl continuava a sentirsi una vittima, sostenendo fino alla fine i suoi ideali di perfezione estetica e bellezza, anche dopo essersi immersa nell’esplorazione delle culture indigene in Sudan e in pellicole di sport acquatico.
Il documentario “Riefenstahl” potrebbe avere ripercussioni significative non solo sul modo in cui viene percepita la figura della regista, ma anche sul dibattito più ampio riguardo la complicata relazione tra arte e ideologia politica. Con l’uso di un materiale d’archivio così vasto, Veiel non si limita a raccontare una storia, ma invita a riflettere su ciò che significa lavorare nell’industria cinematografica in epoche segnate da conflitti ideologici e guerre.
Il film non offre risposte facili, né semplicistiche. Stimola il pubblico a esaminare come la memoria storica possa essere manipolata e rielaborata nel tempo. Sebbene Leni Riefenstahl sia scomparsa nel 2003, il suo legame con il regime nazista e il modo in cui ha gestito la sua eredità artistica continuano a sollevare interrogativi sul potere del cinema e sulla responsabilità morale degli artisti rispetto al contesto in cui operano.