Il processo sulle violenze avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, sfociato in una serie di gravi incidenti nel 2020, ha portato alla luce testimonianze inedite e inquietanti. Durante le udienze, due detenuti hanno confermato l’uso di olio bollente e punteruoli da parte di reclusi contro gli agenti della Polizia Penitenziaria. Questi eventi, che erano stati oggetto di indagini e controversie, stanno ora acquisendo nuovi contorni grazie alle dichiarazioni dirette di chi era presente in quel momento.
Il 5 aprile 2020, il carcere di Santa Maria Capua Vetere è diventato teatro di una protesta da parte dei detenuti, scatenata dalla scoperta della positività al Covid-19 di un ergastolano. I detenuti si sono barricati nelle loro celle, ma alcune fazioni hanno adottato misure violente. Le testimonianze di Maurizio D’Orsi e Raffaele Picone hanno rivelato che alcuni reclusi avevano preparato olio bollente, con l’intento di lanciarlo contro i secondini, in aggiunta all’uso di attrezzi di fortuna come i punteruoli. Queste ammissioni segnano un cambiamento significativo nelle precedenti dichiarazioni rese dai detenuti, che avevano sostenuto che l’olio sarebbe stato utilizzato solo per scopi culinari.
Nel caos di quella giornata, D’Orsi ha messo in evidenza il ruolo predominante di un gruppo di napoletani che, organizzando la protesta, sono riusciti a influenzare le scelte degli altri detenuti. Ha descritto come i membri di questo gruppo stessero riscaldando olio per utilizzarlo come arma contro le guardie. Picone ha confermato queste affermazioni, indicando che il clima di tensione e violenza era palpabile in quel momento.
Durante il processo, Picone ha anche rivelato che le violenze erano legate a dinamiche di spaccio di droga all’interno del carcere. Ha dichiarato che il carcere di Santa Maria Capua Vetere era pervaso da un traffico di Subutex, un oppiaceo sintetico. Questa sostanza si era trasformata in un punto di contesa tra i detenuti. La protesta del 5 aprile, secondo la testimonianza di D’Orsi, si inquadrerebbe all’interno di queste tensioni per il controllo del mercato della droga, con il gruppo dei napoletani che cercava di affermare la propria dominanza sulle attività illecite.
Questi aspetti sollevano interrogativi sul clima di illegalità e sui motivi che hanno portato a sommosse così violente all’interno delle strutture penitenziarie. La presenza di sostanze stupefacenti e la loro gestione tra i detenuti rivela un lato problematico e complesso dell’esperienza carceraria. Il caso di Hakimi Lamine, il detenuto algerino morto dopo un pestaggio, ha ulteriormente accentuato la gravità della situazione. La sua morte è attualmente oggetto di indagine e coinvolge diversi funzionari e agenti, sottolineando la necessità di una revisione delle pratiche operative all’interno del sistema carcerario.
Un ulteriore sviluppo nel processo è stato rappresentato dalla testimonianza di Vincenzo Matrone, un altro detenuto del carcere che ha affermato di aver subito abusi da parte degli agenti. Ha dichiarato di aver subito un infortunio al braccio e di essere stato umiliato. Tuttavia, la difesa ha presentato prove video che sembrano contraddire la sua versione dei fatti. Queste discordanze alimentano il dibattito su ciò che accade all’interno delle istituzioni penitenziarie e sollevano interrogativi sull’integrità delle testimonianze fornite in contesti così delicati.
L’approfondimento di queste vicende dimostra l’importanza di un’indagine accurata e imparziale sulle denunce di violenza e abuso di potere all’interno delle prigioni. Mentre il processo continua, le testimonianze dei detenuti conferiscono una nuova dimensione al dibattito sulle condizioni di detenzione in Italia e sul ruolo delle forze di sicurezza nel gestire le situazioni di emergenza in ambito carcerario.