Il nuovo film di Paolo Sorrentino, “Parthenope”, si presenta come una dichiarazione d’amore nei confronti di Napoli, ma la sua esecuzione suscita interrogativi sulla profondità del messaggio e l’accuratezza storica. Ambientato negli anni Settanta, il film segue la protagonista Parthenope, che ritorna nella sua città dopo aver insegnato antropologia all’Università di Trento. Nonostante le buone intenzioni, la narrazione sembra trascurare aspetti fondamentali della vita culturale e sociale di Napoli in quel periodo.
Sebbene Sorrentino sia nato nel 1970 e abbia vissuto a Napoli nei decenni successivi, la sua rappresentazione di quel periodo specifico risulta carente di sostanza. Gli anni Settanta non sono stati solo una fucina di artisti e creatività, ma anche un periodo di intenso fermento sociale, politico e culturale. Per comprendere appieno l’essenza di Napoli, è cruciale considerare la complessità di ciò che accadeva in città, dalla musica al teatro, dalla letteratura alle lotte operaie.
Un confronto con le opere di scrittori come Domenico Starnone e Giuseppe D’Avino può rivelare quanto l’arte di Napoli di quel tempo fosse multifacetica, integrando emozioni e tensioni sociali. Sorrentino, pur ispirandosi a La Capria e ad altri autori, pare trascurare questi aspetti insigni, relegando alla musica e al cinema un ruolo secondario rispetto al contesto sociale più ampio. Implicazioni come il femminismo nascente o le agitazioni studentesche sono appena accennate, mentre il classico tema della “bella giornata” viene trattato senza la dovuta complessità.
La protagonista Parthenope, interpretata nel film, non riesce a incarnare il simbolo vivente di Napoli. Anzi, risulta quasi un personaggio piatto, privo di corpo e respiro, incapace di catturare l’essenza vibrante e controversa della città. In un contesto dove mille esperienze e storie si intrecciano, Parthenope sembra essere più un espediente narrativo che un vero punto di riferimento emotivo. Il regista non riesce a sfruttare il suo potenziale simbolico, lasciando così l’impressione di un lavoro privo di vera vitalità, un difetto che potrebbe essere in parte attribuito alla sua scelta di non approfondire l’aspetto antropologico esaminato.
A proposito di protagonisti, la figura del giovane bambino-personaggio, figlio del professore universitario, sembra più una caricatura che una rappresentazione autentica della Napoli di quegli anni. La presenza di riferimenti a eventi storici rilevanti, come la figura di Diego Maradona o il colera, appare in modo superficiale e disgiunta dal contesto narrativo, contribuendo ulteriormente a una percezione di fragilità sia per quanto riguarda la poesia che la storia.
“Parthenope” si configura quindi come un’occasione non sfruttata. La mancanza di un’approfondita esplorazione delle dinamiche storiche e culturali di Napoli genera dubbi sulla capacità del regista di rappresentare correttamente l’identità della città. L’auspicio è che Sorrentino possa rimediare a questa lacuna in futuri lavori, dando spazio a storie che possano toccare non solo le corde emotive, ma anche quelle storiche e sociali.
L’esperienza artistica di altri interpreti campani, come Mimmo Borrelli, dimostra che esistono alternative più coinvolgenti e autentiche quando si tratta di esplorare l’anima di Napoli. Grazie a collaborazioni significative come quella con Roberto Saviano, Borrelli offre uno spaccato di napoletanità che, a differenza di “Parthenope”, riesce a combinare passione, storia e poesia in un racconto ricco di significato.
Il panorama culturale napoletano continua a essere fiorente, e le speranze sono alte per futuri progetti che siano in grado di attingere a queste ricchezze artistiche, restituendo al pubblico un’immagine complessa e sfumata di Napoli e della sua anima.